Le Streghe di Triora in Liguria

 

 Sulle presunte streghe di Triora, stupendo borgo che domina la Valle Argentina, è stato scritto tutto e di più, pertanto ci limiteremo soltanto a ricordare i tremendi fatti che subirono le donne del paese, citandoli sommariamente e invitando gli interessati a consultare gli annali pubblicati sui numerosi libri che, si possono trovare in commercio o nelle biblioteche.

Le donne definite streghe, il cui termine, deriva dal latino Strix e significa uccello notturno che venivano trucidate dall’inquisizione, il più delle volte, non avevano nulla a che fare con le accuse che erano mosse contro di loro, spesso si trattava di povere donne di umili condizioni la cui colpa era soltanto quella di aver conservato e tramandato quelle tradizioni e quelle sapienze popolari, legate alla natura, che derivano da un paganesimo mai completamente estirpato da Santa Romana Chiesa: erboriste, levatrici e vedove erano tra le più accusate.

In Italia, e qui si divaga un pò, la prima donna accusata di stregoneria e bruciata su una pubblica piazza di Roma, fu tale Finnicella. Non mi riferisco alla bellissima maliarda del film “Mia moglie è una strega” interpretata da Eleonora Giorgi con Renato Pozzetto il cui nome non è quello di un personaggio inventato, da Franco Marotta e da Laura Toscano per il film diretto nel 1980 da Castellano e Pipolo, ma sto parlando di un personaggio veramente esistito, nella Roma del XV secolo. Finnicella il cui nome è riportato dalle cronache capitoline, potrebbe essere definita la capostipite delle streghe bruciate nel mondo con l’accusa di esercitare le arti malefiche. La sua condanna al rogo, eseguita a Roma l’8 luglio 1424 sulla piazza del Campidoglio, segna l’inizio di quella che sarà poi indicata come la caccia alle streghe nel mondo vecchio e nuovo, segnando così uno dei periodi più bui, quelli in cui il braccio secolare di Santa Romana Chiesa si macchiò di innumerevoli crimini. Fu Innocenzo VIII, nel 1484, ad avviare ufficialmente questa crudele crociata con la sua bolla “Summis desiderantes affectibus“ (Desiderando con supremo ardore) incaricando i frati domenicani, Heinrich Institor Kramer e Jacob Sprenger, di mettere in pratica quella che sarebbe diventata la “bibbia del terrore”, contro ogni forma di stregoneria, il Malleus Maleficarum, (Il Martello delle Streghe).

Da tempo a Roma si mormorava di una donna che, con le sue oscure arti, aveva causato la morte di uno moltitudine d’infanti, circa trenta, compreso il suo stesso figlio, allo scopo di utilizzare il loro sangue, per la preparazione di filtri e sortilegi.

Tuttavia la povera Finnicella, probabilmente, non era una fattucchiera, ma solo una delle tante levatrici che, vista l’elevata mortalità infantile dell’epoca, venivano additate come streghe.

Catturata e maltrattata fin all’inverosimile, la donna venne condotta in ceppi presso frate Bernardino da Siena, proclamato santo nel 1450, affinché la giudicasse per i suoi crimini, essendo lui un predicatore che tanto si stava prodigando per scacciare il maligno che si annidava nella “Città Eterna” nelle sue molteplici forme: paganesimo, usura, vanità e quant’altro.

Il sant’uomo, chiamato Bernardino perché di bassa statura, con un processo sommario giudicò Finnicella colpevole, a suo dire, perché «diabolicamente occise de molte criature ed affattucchiava di molte persone». La presunta strega fu condannata a essere purificata col fuoco e la pena fu eseguita la mattina l’8 del mese di luglio del 1424 nella piazza del Campidoglio, davanti a tutto il popolo di Roma che andò ad assistere al macabro spettacolo.

Spesso la cinematografia ci racconta con ironia fatti, che sono stati decisamente tragici per coloro che li hanno, vissuti e subiti.

Come già detto, il ponente ligure, cosi come l’Italia in genere, è ricco di storie e leggende che tramandano le vicende di femmine processate e torturate per stregoneria, tuttavia la storia di Triora, che leggenda non è, risulta alquanto emblematica per la moltitudine di donne che furono accusate e torturate.

Che cosa accadde in quel periodo in uno sperduto borgo della valle argentina? Vediamolo sommariamente.

Sul finire dell’estate 1587 dopo che nella zona, secondo gli annali riportati, per circa due anni si era registrata una tremenda carestia che mise in ginocchio non solo tutta la zona ma anche gran parte del Genovesato in genere, i villici iniziarono a cercare nel sovrannaturale le cause dei loro problemi. Ai giorni nostri sarebbero emerse nuove tesi che dimostrerebbero che la carestia fu solo un pretesto economico al fine di far lievitare il prezzo del grano e dunque del pane. Grande era la fame che il popolo doveva subire a seguito delle restrizioni sulle derrate alimentari e non ci volle molto prima che i primi nomi di presunte colpevoli saltassero fuori. Fu affidato da parte del Parlamento locale, al Podestà in carica, tal Stefano Carrega, il compito di formare il processo e ivi vennero stanziati i denari per l’intera procedura si parla di una cifra pari a cinquecento scudi. Verso ottobre dello stesso anno giunse a Triora il vicario del Vescovo di

Albenga, il sacerdote Gerolamo del Pozzo accompagnato da altro vicario, i quali iniziarono le procedure con un’accesa predica dal pulpito della chiesa tramite la quale invitavano i fedeli a denunziare chiunque secondo loro potesse essere in odore di stregoneria. Detto fatto ecco che venivano accusate tredici donne quattro ragazze e un fanciullo, come rigorosamente riportato negli atti custoditi presso l’archivio di stato genovese. Ma il numero era destinato a salire: infatti non giunse Gennaio dell’anno successivo che il numero delle accusate era arrivato a trenta, di ogni condizione e classe sociale.

Delle prime donne accusate, morirono l’anziana Isotta Stella, la cui casa di famiglia, ospita oggi il nuovo museo dedicato alla stregoneria, e un'altra sventurata che, non resistendo alle torture inflitte, cadde dall’alto di una finestra nel tentativo di fuggire. La morte di Isotta Stella scosse molto il consiglio degli anziani poiché ella apparteneva alla piccola nobiltà del borgo. Per quanto concerneva l’altra donna il fatto venne invece liquidato come sovente si era consoni fare: “una notte tentata dal diavolo procurò la fuga con guastore una sua veste che aveva indisso et accomodarla a guisa di benda, ma non l'essendo cascò subito che fu fuori dalla finestra” (nota dai processi). Visto il tragico evolversi della faccenda, gli anziani di Triora manifestarono il loro disappunto sull’operato degli inquisitori in una lettera indirizzata al Doge di Genova, affinché facesse cessare quell’inutile barbarie. Come fa notare Padre Francesco Ferraironi nel suo libro “ Le Streghe e l’inquisizione”, la lettera del consiglio degli anziani era molto tendenziosa. Fino a quando le imputate torturate erano solo le donne del popolo, essi guardavano la cosa con distaccato coinvolgimento, ma poiché la situazione, sfuggendo di mano, aveva anche coinvolto le donne delle loro famiglie si doveva intervenire.

La protesta fu accolta dal Governo di Genova che con una lettera al vescovo di Albenga, lo informava della protesta degli anziani notabili trioresi, chiedendo lumi ed invitandolo a vigilare sull’operato del suo zelante vicario, prendendo le opportune precauzioni.

Da lì in poi ci fu un ribattersi di accuse e giustificazioni tra gli anziani di Triora e i vicari inquisitori del Vescovo di Albenga e si sa che quando gli elefanti combattono è l’erba che ci rimette (proverbio indiano), infatti le accusate continuarono a subire angherie ancora più efferate dai loro carnefici. Ma il peggio doveva ancora arrivare.

Dopo che i vicari del vescovo, nel gennaio 1588, abbandonarono Triora per occuparsi di altri processi per stregoneria nel circondario, l’ispezione

in loco dell’Inquisitore capo di Genova mutò le sorti di una sola accusata, una giovine di 13 anni, che fu scarcerata.

A giugno nella cittadina della Valle Argentina fu inviato un commissario straordinario, tal Giulio Scribani.

Ma se qualcuno pensava che l’arrivo dello Scribani modificasse, in qualche modo le sorti delle donne di Triora, sbagliava. Non solo furono allungate ulteriormente le indagini, ma la ferocia e l’accanimento su quelle povere sventurate si perpetrarono senza requie alcuna. Le donne ancora incarcerate a Triora, tredici in tutto, furono inviate a Genova, su richiesta specifica dell’Inquisitore capo, per una revisione dei processi, mentre il commissario straordinario rimaneva in loco al fine di snidare altre donne malefiche: cosa che gli risultò assai facile.

Non era stato assegnato nemmeno da un mese a quell’ufficio che il suo operato suscitò le proteste e lo sdegno di tutti gli abitanti di Triora e di tutto il circondario.

Le neo incarcerate, circa una ventina, sotto le torture confessarono i crimini più atroci tra cui il guastamento dei figlioli altrui e lo sterminio di infanti e questo portò lo Scribani a chiedere per quattro di esse, cittadine di Andagna, la condanna a morte.

A seguito di dette condanne, al fine di far chiarezza sulle vicende, la Repubblica di Genova affidò a tal Serafino Petrozzi, auditore e consultore, l’incarico di revisionare gli atti dei processi imbastiti dallo Scribani, ritenendoli alquanto tendenziosi e non supportati da prove certe. Questo però, vista la delicatezza degli atti non fu in grado di prendere posizione. Non ottenendo nessun risultato dall’intervento del consultore, al Petrozzi vennero affiancati altri due dottori in diritto: tali Giuseppe Torre e Pietro Allaria Caracciolo.

I due commissari, si ritrovano in linea con lo Scribani ritenendo giuste le condanne a morte, che nel frattempo erano salite a sei, riuscendo a portare dalla loro parte anche il Petrozzi che in un primo tempo si era dimostrato reticente sul prendere una posizione netta. A qual punto la Repubblica non poté che, avvallare tale richiesta, invitando il Vescovo di Albenga e le autorità locali a eseguire la condanna. Ma, colpo di scena, giunse da Genova, dal capo Inquisitore, il veto di sospensione della condanna, in quanto, competenza esclusiva della Santa Inquisizione di Roma il pronunziarsi circa i delitti imputati alle povere sventurate.

Nel frattempo, nel mese di ottobre dello stesso anno 1588, cinque delle condannate, la sesta era stata assolta, vennero inviate, via mare a, Genova,

nelle carceri dell’inquisizione, affinché fossero consegnate all’Inquisitore capo di Santa Romana Chiesa, affinché decidesse circa la loro sorte.

Sorte che sarebbe rimasta incerta fino a circa, metà dell’anno successivo, quando le donne sopravvissute, tredici su diciotto, potettero riavere la liberta dopo circa undici mesi di prigionia, su decisione del Tribunale della Santa Inquisizione.

Giulio Scribani, a seguito delle scelleratezze e della crudeltà con cui si era accanito su queste povere donne, venne scomunicato, sanzione che fu poi rimossa nell’agosto del 1589 per intercessione delle autorità della Repubblica Genovese.

Di tutte le scelleratezze perpetrate ai danni delle donne di Triora e delle sue vicine borgate, una delle più crudeli è quella sicuramente, accaduta a Franchetta Borrelli appartenente a una delle famiglie più in vista della zona. Fra le varie torture subite dalla povera donna la più tremenda è sicuramente stata quella del cavalletto, sulla quale la stessa è stata posta per più di ventitre ore. L’emblematica frase “ io stringo li denti e poi diranno che rido” la dice tutta sulla ferocia e l’accanimento degli inquisitori.

Circa le sorti delle sopravvissute, poco si sa, anche se si dice furono liberate nelle valli genovesi tra cui la Val Bisagno, a Canate di Marsiglia a Davagna, come già accennato precedentemente in altro post.

immagine quadro di Francisco Goya

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